23 novembre 2004

Ma embedded vuol dire imbavagliati?

da www.reporterassociati.org


Giornalisti: pronti per un "servizio" molto militare...

di Mimosa Martini

22 Nov 2004

E pensare che abbiamo passato mesi- ora possiamo pure dire anni- a discutere sull’opportunità o meno per un giornalista di “arruolarsi” con un contingente per seguire da vicino le operazioni di guerra in Iraq. Ci siamo posti interrogativi gravosi per la coscienza e faticosi per la fragile pazienza come quelli sull’etica del giornalista-soldato, per via della censura rigidissima imposta agli embedded con l’esercito Usa e sull’autocensura di rinforzo che un giornalista finisce suo malgrado per attuare, se non altro per il meccanismo più noto in altra situazione come “Sindrome di Stoccolma”. Quanti dibattiti! Quanti confronti con il senno di poi con i colleghi americani! Quanto tempo sprecato. D’ora in poi chi scrive e parla di cose di guerra in Italia sarà un embedded d’ufficio. (Nella foto l'autrice dell'articolo).

Via il banale gilet multitasche : di rigore la divisa mimetica , da indossare sull’anima prima ancora che sul corpo, e senza neppure accorgersene. Indolore e insapore fino a quando però il giornalista che ha il maledetto vizio di fare il mestiere suo, non si metta a raccontare quello che vede . E allora lì cominceranno i dolori .
Un su
ggerimento alle famiglie dei giornalisti : facciano scorte di arance a Natale.

Perché chi racconterà di guerra andrà dritto in carcere. Lo ha deciso (e votato) il Senato della Repubblica con una sostanziale modifica del codice penale militare. Adesso, come si dice nei telegiornali, la parola passa alla Camera dei deputati.

No, non è uno scherzo: chi non ha fatto il servizio militare si rincuori, ora potrà farlo da giornalista. Verrà infatti punito con la reclusione in un carcere militare il giornalista che «procura notizie concernenti la forza, la preparazione o la difesa militare, la dislocazione o i movimenti delle forze armate, il loro stato sanitario, la disciplina e le operazioni militari e, ogni altra notizia che, essendo stata negata, ha tuttavia carattere riservato».

Il giornalista che verrà accusato di questi «reati» potrà essere condannato ad una pena variante tra i due e i dieci anni di carcere. E se queste notizie verranno «divulgate» la pena potrà essere raddoppiata e arrivare fino a venti anni di carcere. Il minimo della condanna per il cronista che osa scrivere qualcosa che disturba è in questo caso di cinque anni.

Da noi le cose (dalla moda alla politica) sono sempre arrivate in ritardo rispetto agli Stati Uniti. E becchiamoci il silenzio stampa con minaccia di carcere per chi vuole testimoniare della guerra. Magari in un futuro, anche da noi un inviato embedded documenterà rastrellamenti e uccisioni a sangue freddo ingiustificate e il suo direttore le manderà in onda, come ha fatto la NBC con le immagini da Falluja nei giorni scorsi.

Negli Stati Uniti oltre alla censure, nonostante il Patriot Act e la rielezione di Bush , esiste anche un granitico diritto alla libertà d’informazione. Forse un giorno anche da noi, chissà…

O forse, mi sono distratta e quei giornalisti della NBC sono stati già condannati a morte?

Mimosa Martini
(Grazie alla redazione di Articolo21)

redazione@reporterassociati.org

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